domenica 29 marzo 2009

Sarebbe stato meglio se piovesse che se ce fosse 'sto vento!


Sarebbe stato meglio se piovesse che se ce fosse 'sto vento!
È il triste e laconico commento, fors'anche inopportuno, sicuramente penzolante pericolosamente sul precipizio dei congiuntivi, sgorgato, come fosse un sussurro analcolico, dalla bocca del podista toscano che mi ha affiancato (e superato) al 17° km, stamattina, in una gara nella quale forse, anzi, sicuramente, l'unico ad avermi lasciato lì è stato proprio lui. Depositando, tra me e la distanza che poi è aumentata fino alla fine e che ci ha diviso per l'eternità, quel fardello di parole legate assieme malamente che guarda caso poi, com'è strano!, si sono mescolate, come per incanto, con la musica bronzea scaturita dal campanile del paese chiamato Solomeo, che con una gioia noiosa, quasi fastidiosa, intonavano le note dell'Ave.
Ho continuato a correre. Ma la mia solitudine, che fino a quel momento aveva eretto un baluardo insormontabile e impenetrabile alle fredde intrusioni di voci e odori e colori esterni, ha iniziato a vacillare paurosamente e la mia concentrazione, che credevo salda e che si era presa fino a quel tragico momento l'ingrato compito di scorrazzarmi per la Valle liberandomi dalla sempiterna e assoluta, solita, presenza di inquietudine mattutina, si è scollata, senza pace, e mi ha donato, da quel momento, solo interrogativi preoccupanti.
Poteva la pioggia sibilare senza vento? Poteva alleviare, bagnandolo di fresco, l'imperituro sforzo se avesse preso il posto del caldo e forte scirocco?
Le nuvole, quelle, con il loro carico di pioggia, strambe, grige attendevano, indugiavano, perché il vento aveva detto: “aspettate, ora ci sono io, voi dopo”.
È cosi che ho capito, perché le ho vedute – bastava spalancarli quegl'occhi! -, come le folate d'aria calda, che si erano sedute, spaparanzate, coi loro panzoni rubicondi, sugli spiazzi di erba verde dei campi vicini, avevano deciso di silurarci, spirando raffiche discontinue con forza obliqua e sbatacchiandoci qua e là, e ridendo di me, ridevano di noi, piegandosi in due per lo sforzo singhiozzante.
Guarda tu, ma pensa!, gli scherzi colorati della natura matrigna, beatamente decisa a cambiare le note sul pentagramma. Scompaginando i congiuntivi e funestando il silenzio al rintocco di monotone e unicorde campane. Col vento che cercava di nascondere tutta questa meraviglia.

Ora piove. Finalmente. Me ne sono accorto. Ma la corsa si era già arrestata.

giovedì 26 marzo 2009

Un puntino rosso

La distesa è bianca. Solo un puntino rosso, laggiù, scorgo. Due grammi di muscoli, tesi e nervosi. Piccoli, da lontano. Ma anche da vicino. Stirati.
Si muove in fretta. Va dritta. A lei le curve non piacciono. E così arriva prima. Prima di tutti. Piegata in avanti, ma decisa a lasciarsi dietro tanta di quella strada.
E' leggera. Le orme sulla neve sono come piccoli nei grigi. Piccoli. Superficiali.
La distesa è bianca. E lei veste di bianco. Anche il cappello è bianco. Le scarpe. Pure.
La distesa è bianca. E fredda.

Ma il puntino è rosso. E si muove veloce. Caldo, schiumoso. Scorgo solo il puntino. Tutto il resto è bianco e tutto si confonde quando è bianco. Ma quel puntino rosso... quello sì, lo vedo, perchè ha le sembianze della sua anima. Rossa. Palpitante. Che corre, ma non scappa.

mercoledì 25 marzo 2009

La strada che non aveva fine

La strada era nascosta. E al buio diventava del tutto introvabile. Addirittura.
Ma venne la sera in cui improvvisamente comparì alla mia vista.
Un vicolo, stretto, circoscritto da muri alti e consumati, storti, di mattoni di pietra grigia ruvida, soffocati da erba rampicante antica e coriacea.
Chissà perchè non esitai un istante. Chissà perchè mi intrufolai in quell'antro impenetrabile e temibile. No, ma lo feci.
Il viandante aveva urlato qualcosa. Ma la sua voce come nacque morì, inghiottita dalla durezza dei muri. Un avvertimento? Può darsi.
La salita dura ed affannata si srotolava sul mio fiato sempre più corto e disperato. Tutti sostenevano che quella era la strada che non aveva fine, nella quale potevi correre in eterno, senza bisogno di niente, né di aria, né d'acqua, né di compagnia.
La strada della solitudine. La strada che non aveva fine.
Ma se ve lo racconto, la strada ebbe termine. Davanti, un muro.

domenica 22 marzo 2009

Perchè é ostinata. La corsa


Spesso mi ritrovavo ad uscire proprio quando aveva iniziato a piovere. L'acqua scendeva piano e fitta, le scarpe erano fradice già ai primi passi. Scarpe di pezza. Scarpe giocattolo.
Sotto l'ombrello, al riparo dalla pioggia percorrevo i pochi metri che mi separavano dalla strada. Le macchine sfrecciavano impazzite, su e giù. Facevano apposta. Di cercare l'impatto con le pozze d'acqua gorgogliante per spruzzare i passanti. Per infradiciarli.
Io non ero un passante. Stavo fermo. Ma nonostante questo non perdevo neanche una goccia d'acqua sparata dalle auto in corsa.
Dieci minuti, forse più, forse di meno. L'attesa era fresca. Non mi infastidiva.
Finalmente. Eccolo. Dieci anni. Il tempo.
Spesso, quando pioveva, pensavo che no, non sarebbe passato. Almeno quella volta. Perchè, poi? E allora riprovavo. Tornavo all'appuntamento. Solito marciapiede. Solita pioggia. A volte più fredda, a volta tiepida. La solita oscurità. Invernale.
Ed eccolo, E., il solito passo gobbo. Le solite scarpe zuppe. Quei baffi, alla tartara, che la bocca neanche si scorgeva. Figuriamoci. Il giacchetto rosso con le strisce rifrangenti bianche. Ciaf, ciaf! Dopo poco era lontano.
Ma, dicevo io, è possibile correre sotto la pioggia e trovare un pensiero positivo per questa faccenda? I baffi alla tartara zuppi d'acqua, qualche volta bianchi di brina.
Per questo odiavo la corsa. Perchè era ostinata. Ed io odiavo gli ostinati. Ma chi glielo fa fare?
Dieci anni. tanta pioggia e tanto freddo, il ghiaccio, la neve, il sole rovente, il vento gelido e il mio mal di testa perenne.
Amo la corsa, perchè è ostinata la corsa. E. è diventato mio amico. E ora lo voglio dire.

lunedì 16 marzo 2009

Nel Volto

Sì, più in là. Più in là c'è la strada. Quella scomoda, ma in discesa. Quella dura, ma liscia. Quella piena di odori, ma senza ossigeno. Quella traboccante di suoni, ma che scorre nel silenzio.
Quando esci dalla curva e non argini il veloce entusiasmo del passo percosso dal cuore impazzito e in piena velocità ti trovi ad aggredire lo snodo della strada…ecco, lì, ti imbatti nel secondo che ha il potere di cambiare la vita. Ti sconvolge quel secondo. E trasforma il volto.
Quando riprenderai il cammino non sarai più lo stesso e nessuno ti riconoscerà.

martedì 10 marzo 2009

europei indoor a Torino

Mentre i poveri tapascioni passeggiavano intorno al lago Trasimeno, l'Italia dell'atletica leggera portava a casa il terzo posto nel medagliere agli europei indoor di Torino: 6 medaglie conquistate (2 ori, 2 argenti e 2 bronzi): oro di Donato nel triplo, argento di Licciardello nei 400, bronzo della Cusma negli 800 e l'argento di Cerutti e il bronzo di Di Gregorio nei 60, per concludere con il trionfo della 4x400 maschile che ha conquistato l'oro.

Bravi!

in volo


Quella notte era più lunga delle altre notti. Semplicemente, non aveva fine. La luna che girava la volta celeste aggrediva senza tregua i suoi occhi dilatati dal buio.
Domani. Domani la gara, domani una gara. Tanti chilometri da correre. Troppi. Ma perché?
Perché decidere di farsi trasportare leggermente dal solleticante gusto dolce-amaro che ha la sofferenza quando ancora non è stata saggiata?
Quesiti irrisolti, veglia, lenzuola sbuffanti e il sonno che è solo un ricordo. Di tante notti fa.
La corsa. Questo modo orizzontale di approcciare la vita. La corsa. Piena di metafore. La corsa. Uno stile. Chilometri. Che nessuna sa.
Ma che finiscono. Come l’oscurità che riesce a trovare lo spazio per il giorno. E il sole che continua ad accecarti. Alla fine di una notte senza sonno.
La corsa. Serve la corsa. Si avvinghia a te come una pianta rampicante. Che ti raddrizza. Provvede, la corsa, al tuo bisogno di accostarti alla vita. In maniera diversa, obliqua, distaccata. Risolutiva. Forse.

Riuscì ad uscire, a gettarsi sulla strada. A correre. Solo alla fine. Quando di metri non ce n’era più traccia, si rese conto di aver dimenticato le scarpe.
Ma i piedi erano integri. Perfettamente.
Solo allora concepì di aver volato.

mercoledì 4 marzo 2009

tutta curve, la strada



come una serpentina, il corridore segue il corso della strada che gira e rigira, si inceppa, riparte, sale, frena e si sfrena, s'infanga e si sbriciola.
s'affanna il corridore e non sa perché...
lo immagina, prova a costruire il tracciato, ma la strada è curva, curva e ricurva e allora non sa cosa trova dopo la curva. ma dopo la curva c'è solo un'altra curva e la corsa si spiaccica contro l'inevitabile.
suda, beve aria, insuffla, si scapiglia, sgocciola, si bea dell'infinito sconosciuto, quello che esiste dopo la curva, il corridore.
ma dopo la curva c'è un'altra curva. e un'altra ancora.